Non è per tutti.
E’ così che sento di dover cominciare a raccontare, perché è importante sapere che ciò che leggerete non è il racconto di un semplice corso ma la sintesi di un’esperienza profonda, audace ed emozionante.
L’impatto con la Caserma MARINI, sede del 183° Reggimento Paracadutisti “NEMBO”, è significativo, si varca la porta carraia e paracadutisti in uniforme da combattimento ti accolgono all’interno della loro casa. Un onore incredibile. Durante la prima settimana ho la fortuna di conoscere il Comandante del Reggimento, il Colonnello MONGILLO che ci ha accolto con gentilezza e grande disponibilità. Si comincia.
Il percorso formativo si articola su teoria e pratica strutturato in quattro moduli che definiscono le varie fasi di quella che sarà poi l’attività. Non starò a dettagliare questa parte ognuno avrà modo di farla propria col progredire della formazione, io mi concentro su altri aspetti.
I primi giorni sono molto emozionanti, l’idea di entrare in caserma e avere la possibilità di viverla in prima persona negli ambienti in cui il personale presta servizio è davvero un grande onore. I primi giorni sono serviti per cominciare a conoscere gli altri ragazzi e fare gruppo.
La personalità che all’inizio mi colpisce di più è quella dell’istruttore della Sezione, Graziano LAMURA, croce d’oro al merito dell’Esercito. Uomo diretto, conciso e pratico. Fin dal primo giorno ci fa capire che non farà sconti a nessuno e che ognuno di noi dovrà dare il massimo. E’ giusto, non è un gioco e nessuno ci ha obbligato a partecipare, è doveroso impegnarsi. Abbiamo inoltre la fortuna di essere assistiti dal Primo Maresciallo Gianluca Rizzi, Vice Presidente della Sezione, uomo mite e paracadutista esperto che grazie al suo atteggiamento sereno ci invoglia a vivere il percorso come un divertimento, nonostante l’impegno. Graziano e Gianluca, due facce della stessa medaglia, due uomini che calzano alla perfezione nel loro ruolo, connubio perfetto per noi allievi, per me in particolar modo, fervido appassionato del mondo militare.
Il corso è un susseguirsi di nozioni e pratica, tutto somministrato con la dovuta calma e con la premura di aver acquisito ogni lezione impartita ma più i giorni passano e più mi rendo conto che si sta creando un legame tra me, i miei colleghi, gli istruttori e la Caserma. Piano piano sento di entrare a far parte di qualcosa di profondo, qualcosa che va oltre la semplice amicizia, un legame che si può tranquillamente definire cameratismo. Ci sosteniamo, scherziamo, ci aiutiamo, senza interessi e senza malizie, con sincera premura verso il gruppo come mai avevo vissuto nella mia vita, sia privata che professionale. Tante volte il concetto di squadra viene usato come cardine per la riuscita di un obiettivo, spesso esasperato a tal punto che muore per eccesso di sè stesso ma al corso è nato in maniera naturale, pura, un dono veramente grande. Abbiamo età diverse, vite diverse, professioni diverse ma come si varca il cancello sento davvero che ogni differenza si appiana e l’unica cosa che fa la differenza è la passione e l’impegno, caratteristiche che percepisco allo stesso livello per tutti.
Più si va avanti, più il corso diventa fisico, cominciamo con il “pollaio”, ovvero un’imbracatura appesa ad un telaio d’acciaio dove ognuno di noi testa in prima persona il comportamento in aria sotto ordini diretti dell’istruttore. Impegnativo all’inizio, ci si trova catapultati dalla teoria alla pratica letteralmente sospesi ed è qui che cominciamo a dimostrare chi siamo, è qui che vengono fuori i nostri nomi di battaglia: – Leonardo: detto Mefisto per via delle battute pungenti che personalmente mi fanno morire dal ridere, grande uomo e grande Carabiniere. – Alessio: detto Robocop per via del fisico statuario e del suo ruolo di Ispettore in Polizia di Stato. – Marco: detto Younger per via della giovane età, sedici anni ma anima molto più matura. – Gianluca: detto One Shot per via del fatto di essersi sganciato dal pollaio tirando appunto lo sgancio rapido dell’imbracatura rischiando una rovinosa caduta. – Simone (ovvero io): detto Manicotto per via della mia professione come geometra all’acquedotto di Firenze. – Simone: purtroppo non siamo riusciti a trovare un soprannome al nostro collega che per colpa di un infortunio si è dovuto ritirare a metà del corso, un vero peccato.
Siamo a metà corso ed è qui che si comincia davvero a sentire l’unione del gruppo, ridiamo, scherziamo e ci prendiamo in giro ma c’è sempre una parola d’incoraggiamento, un complimento o una pacca che ti fanno capire che siamo uniti, che siamo l’uno a supporto dell’altro. Non è facile, ognuno ha la sua vita, il suo passato e il suo presente, i suoi problemi e i suoi impegni eppure li, al corso, nella Caserma Marini io riesco per la prima volta nella mia vita a lasciare tutto in disparte, la mia vita è fuori dalla porta carraia, li dentro sono un allievo e basta.
Presa familiarità con le manovre in sospensione si comincia con quella che per me è stata la parte più difficile del corso, gli atterraggi. Teoricamente è un gesto tecnico facile, si tocca terra coi piedi, si espone il gluteo ed appoggiandosi ad esso si fanno ruotare le gambe per scaricare il peso a terra in quella che è una capovolta. Rispetto ai corsi precedenti però dobbiamo esercitarci sul terreno e non in palestra sul materassino. Non sembra nulla di impegnativo, appoggiarsi sull’erba sembra una cosa da poco eppure il terreno è duro e si fa sentire. Alla seconda lezione, cadendo sento un dolore che non mi piace ma continuo. Non va, nei giorni a seguire il mio corpo mi dice che c’è qualcosa che non torna, mi visitano e trovano una piccola lesione alla parte bassa del bacino, proprio quella che va in appoggio per la capovolta. Panico, mancano dieci giorni e c’è il rischio che salti tutto, non posso, non adesso, è troppo tempo che aspetto questo momento, devo stringere i denti, a qualunque costo.
Penultima settimana, in Caserma parlo con Graziano e Gianluca, mi dicono che se le cose stanno così io non mi lancio. Terrore, lacrime agli occhi, un mese di impegno fisico e preparazione psicologica stanno per sfumare ma la fortuna vuole che anche tutti gli altri colleghi non sono al top e rischiano l’infortunio. L’istruttore capisce al volo il problema e grazie alla sua richiesta il Comandante ci concede l’uso della palestra, miracolosamente la lesione si rimargina e con l’uso del materassino e di un tutore non sento niente, sono felicissimo, il percorso prosegue. Prosegue ma non per tutti, Gianluca (One Shot) purtroppo, non volendo fermarsi nell’esecuzione degli atterraggi si procura un infortunio. La sua voglia di perfezionare la tecnica lo porta a non ascoltare il corpo e cede, siamo in quattro ma sempre uniti e compatti.
Arriva il giorno dell’esame, io sono in tensione, è un giorno importante per me, è il passo che può portarmi dalla caserma alla zona lancio. Sono teso, nei giorni a venire ho ripassato, tanto, al punto che sia mia sorella che la mia compagna mi hanno dedicato del tempo per interrogarmi. Siamo alle battute finali, sono consapevole di essere pronto ma la sfortuna può essere sempre dietro l’angolo ma io sto per diventare un paracadutista, mi hanno addestrato a gestire la sfortuna, è tempo di entrare in aula. L’istruttore ci dispone a debita distanza ma siamo consci che se anche parte della commissione lui è li per noi, sempre, dal primo giorno lui è al nostro fianco e questa consapevolezza mi dà una grande forza. Abbiamo l’onore di avere in commissione il Generale POLLINI, Segretario Generale dell’ANPd’I nazionale ed esperto paracadutista. Comincia il test, tante domande, su alcune vado a colpo sicuro, su altre ci ragiono, c’è poco margine d’errore e lo sappiamo ma dobbiamo compiere questa prima missione e portarla in fondo insieme. Il tempo passa, gli occhi del Generale sono su di noi, il cuore di Graziano batte con noi. Finisco, respiro, rileggo, ragiono, forse troppo. Ho paura di aver sbagliato qualcosa, di due domande non sono sicuro e temo la bocciatura ma non posso indugiare, devo avere fiducia in me stesso e quindi consegno ed esco dall’aula. Sono minuti di tensione che solo Gianluca riesce a smorzare, con il suo spirito sempre allegro e con il sorriso stampato in faccia ti farebbe star tranquillo anche se il mondo dovesse finire in quell’istante eppure sono certo che dietro a quel sorriso si nasconde una personalità guerriera, decisa e forte, in sostanza sono contento di averlo amico. Veniamo richiamati, Graziano ci nomina uno per volta e per ultimo me, mi guarda, per un attimo non capisco bene ma poi fa “Simone… Zero errori”. Tiro un sospiro di sollievo, è fatta, almeno la prima prova. Usciamo, pronti per le prove fisiche, si corre, Mefisto ci dà il passo, Younger ci tallona con convinzione, io e Robocop avanziamo, lui qualche passo avanti a me e terminiamo nei tempi. Addominali e poi flessioni, tutti insieme, ce la facciamo senza problemi. Adesso arriva il bello, trazioni alla sbarra, veniamo chiamati uno per uno. Tocca a me. Avevo cominciato il corso con quelle a presa supina, o inversa, coi palmi delle mani rivolti verso la faccia poi la settimana precedente l’esame Graziano mi esorta a provare quelle a presa prona, mai azzardato in vita mia, o meglio mai riuscite. Mi attacco alla sbarra e mi tiro su, ce la faccio, ne faccio tre, sono stupito e anche Graziano per cui azzardo e nonostante la fatica regalo tre trazioni al Generale, la quarta purtroppo solo a metà ma basta per superare la prova. Andiamo in palestra per gli atterraggi, li dichiaro come previsto e salto, il primo è terribile, la fatica della corsa mi fa tremare le gambe e ne esce un gesto orribile. Graziano si avvicina, mi tranquillizza e mi esorta a riproporla, ne escono così tre atterraggi “decenti” e così anche per i miei colleghi, molto più performanti di me in atterraggio. La commissione si riunisce, attendiamo, ci chiamano, con gioia ci annunciano che siamo stati promossi e sia Graziano che il Generale si congratulano con noi, poi un grande onore, il Comandante del Reggimento si affaccia per congratularsi e farci i migliori auguri per i lanci e per il traguardo raggiunto. Negli occhi di quell’uomo brilla la scintilla del comando e mi ispira una grande fiducia, un grande orgoglio. Adesso è ora di pensare a sabato, ai tre passi finali, ai tre lanci di brevetto.
Venerdì notte il momento più duro, dormo poco, emozione, tensione e paura si alternano e oscillano nella mia mente come onde in un mare in tempesta. Ci alziamo la mattina e finalmente posso indossare l’uniforme, tocco con mano la mimetica vegetata cui la sera prima avevo apposto la patch della Sezione, il mio cognome e la bandiera italiana, me la passo tra le mani e tasto quel tessuto che per anni ho sognato di portare e con forte emozione la indosso ed esco. Ci avviamo all’aeroporto, tutti in mimetica, tutti concentrati, io particolarmente. Arrivati in zona lancio scopriamo con piacere che Lorenzo, agente di Polizia Locale e Graziano, due membri della Sezione, si lanceranno con noi. Entriamo nell’hangar, vedo l’aereo che ci porterà su, è molto più grande di come l’avevo immaginato, mi giro intorno e osservo l’ambiente, altri colleghi da altre parti d’Italia sono li con noi. Passa un po’ di tempo e la tensione sale fino a che arriva la chiamata, il materiale disposto in fila indiana e il Direttore delle esercitazioni ci chiama uno ad uno per andare in postazione accanto al paracadute. Ci imbrachiamo, penso, moltissimo. Penso al peso di ciò che andrò a fare, delle sensazioni che proverò, alla tensione che mi stringe lo stomaco, il caldo che mi affligge ma il tempo perde senso in quei momenti e in un attimo mi trovo a bordo dell’aereo. Sono nell’ultima passaggio di uscita, ci lanceranno tre paracadutisti alla volta. L’aereo prende quota, guardo giù, non dovrei probabilmente ma lo faccio e prendo consapevolezza dell’altezza, arriviamo in quota, mi chiedo se sto sognando o sono li davvero. Intanto il Direttore di lancio grida “UN MINUTO AL LANCIO” e apre la porta, il vento entra in carlinga e mi accarezza il viso alleviando il calore, poi un secondo ordine “MOTORE” e sento l’aereo che abbassa i giri del motore, infine il terzo “ALLA PORTA” e vedo il primo paracadutista posizionare le gambe fuori dalla carlinga, pochi attimi e lo vedo sparire, sussulto. Così va avanti, uno dopo l’altro il DL accompagna i paracadutisti al salto nel vuoto e io li vedo sparire, quando sta per toccare a me succede qualcosa di strano, la paura, la tensione, l’ansia spariscono e subentra un’imprevedibile sensazione di quiete, mi accingo alla porta, sguardo all’orizzonte, il vento mi investe e mi sposta le gambe, sono pronto, mai stato così pronto, mi butto. Sono attimi, mi sento letteralmente cullare in aria, una sensazione incredibile, come se delle braccia invisibili ti sostenessero con leggerezza dondolando, conto, 1001, 2, 3, 4, 5, guardo su, il paracadute è aperto ma è avvitato, vado in automatico, risolvo il problema e constato la corretta apertura, adesso posso guardare l’orizzonte. E’ stupendo, una prospettiva indescrivibile, il silenzio più totale, solo il rumore del vento leggero, la terra in basso si avvicina lentamente ma l’emozione di quegli attimi di libertà non ha parole per essere descritta. Arrivo a terra, è fatta, sono tutto intero, raccolgo la vela e corro verso l’hangar. E’ fatta, il primo è andato, sono felice, come mai stato in vita mia, urlo “FOLGORE!” a scaricare la tensione, fiero di questo primo passo. E così il secondo lancio e poi il terzo. Non nego che gli altri due mi abbiano suscitato millisecondi di esitazione alla porta, la consapevolezza di ciò che si sta per fare, ovvero saltare nel vuoto da un aereo a cinquecento metri, ti fanno pensare che in fondo non è un gesto naturale ma ormai ci sei e lo fai e io l’ho fatto ma non da solo, coi miei camerati, i miei colleghi, i miei fratelli. Ci siamo sostenuti, con cenni d’intesa, con sguardi profondi, con pacche che trasmettono energia e coraggio. Coraggio, è questa la sensazione che predomina in quei momenti e che ti rende degno di essere poi chiamato paracadutista, perché non esiste coraggio senza la paura ma devi avere l’ardire e la forza di nutrirlo più del timore e così è stato, per tutti noi quattro.
Una volta lessi una frase in merito ai lanci di brevetto, non ricordo la fonte ma aiuta veramente a capire cosa significa lanciarsi nel vuoto tre volte di fila. “Il primo lancio è quello dell’incoscienza, si procede senza realmente sapere cosa ci succederà e veniamo travolti dal momento vivendo un’esperienza mai sperimentata e non replicabile a terra. Il secondo è il lancio della consapevolezza, perché hai preso atto di ciò che stai facendo e quindi la tua mente va in conflitto con ciò che devi fare, infatti per me è stato il più difficile perché ho dovuto dare fondo a tutta la mia riserva di volontà. Il terzo è il lancio del coraggio, è l’ultimo, quello che ti separa dal brevetto, dal sogno, dal traguardo e io l’ho fatto con rabbia, con grinta, ho aggredito sia l’aria che il terreno in un ultimo sforzo di realizzazione personale”.
E così è finita, così si conclude il percorso o meglio ne comincia un altro, quello dove sei consapevole di essere un uomo nuovo, cambiato, non voglio dire migliore ma sicuramente diverso, sicuramente fuori dal comune. Una prospettiva nuova della vita, la certezza di aver compiuto un gesto straordinario, un’esperienza forte e profonda che ti permette di capire che se hai fatto questo puoi fare tutto, che non esiste ostacolo invalicabile o limite insuperabile ma soprattutto, da oggi, sono un paracadutista! FOLGORE!
par. Simone VANNETTI – Socio Sezione Pistoia